E’ possibile creare “ad arte” una malattia? La storia recente ci insegna di sì. Come? Per esempio agendo sui parametri che stabiliscono il confine tra normalità e malattia. Un recente editoriale della prestigiosa rivista inglese British Medical Journal (BMJ 2013; 346: f2809) mette in evidenza un nuovo movimento dei cittadini per una riforma in campo sanitario che può rivelarsi fondamentale per la salute del 21 ° secolo.
Questo nuovo movimento mira a contrastare un fenomeno globale, chiaramente definito nell’editoriale: “I risultati della ricerca medica sono spesso distorti per fini di lucro”. La medicalizzazione della società nel mondo contemporaneo infatti è sempre più spinta da sofisticati e diffusi meccanismi di promozione industriale. Mentre un tempo si inventavano medicinali contro le malattie, ora si inventano malattie per generare nuovi mercati di potenziali pazienti (Godlee F. Are we at risk of being at risk? BMJ 2010; 341:4766).
Il messaggio complementare che viene divulgato è che “c’è una pillola per ogni malattia (comprendendo in questo concetto la patologia in sé, il rischio di ammalarsi e il sentirsi ammalato), ma anche una malattia per ogni pillola.” L’espressione “disease-mongering” o <<mercificazione della malattia>> indica un’operazione di marketing finalizzata all’introduzione di un protocollo terapeutico o di un farmaco già pronto per l’immissione nel mercato attraverso una campagna pubblicitaria per introdurre quadri clinici, al di fuori della seduta medica, e per indurre il consumatore alla ricerca di un rimedio per specifiche malattie (Leggi).
Le persone vengono persuase che problemi, che prima accettavano come un semplice inconveniente, o comunque come “parte della vita”, debbano ora destare preoccupazione e siano degni di un intervento a livello medico.
Il fenomeno è tanto diffuso – e da parecchi anni ormai – che il BMJ pubblicò nel 2002, una “Classificazione internazionale delle non-malattie”, contenente più di 200 condizioni ritenute, a torto, come patologiche. Tra queste figurano la calvizie, la timidezza (ribattezzata come “disturbo d’ansia sociale”), la cellulite.
Perché questa cattiva pratica e di chi è la colpa? Questo marketing aggressivo della malattia costringe le persone sane a considerarsi malate ed espone le persone agli effetti collaterali dei farmaci senza nessun evidente beneficio. L’aumento della prescrizione inutile è anche potenzialmente molto costoso per ogni servizio sanitario finanziato dallo stato e potrebbe comportare notevoli costi sottraendo risorse a trattamenti più appropriati che rischierebbero di non poter essere finanziati.
L’editoriale del British Medical Journal, di cui abbiamo parlato all’inizio dell’articolo, arriva dopo una conferenza internazionale tenutasi a febbraio 2013. Il convegno “Selling Sickness 2013 – People Before Profits” è stato progettato per essere parte di un movimento globale sulla salute che ha condotto ad una “chiamata all’azione”, che mira a unificare professionisti, ricercatori, attivisti, studiosi, operatori sanitari, avvocati e tutti i cittadini allarmati dal fenomeno della mercificazione della malattia.
Potete leggere l’appello “La salute in vendita” qui.
Cosa possiamo fare per contrastare questo fenomeno?
Numerose ricerche dimostrano l’impatto che un’informazione adeguata può avere sulle scelte dei pazienti. Uno studio condotto dall’economista svizzero Domenighetti mostra, per esempio, come il 60% della popolazione campione sia risultata disponibile a sottoporsi a uno screening per l’identificazione precoce, tramite il dosaggio del marker tumorale CA 19.9 , del cancro al pancreas.
Quando, però, sono state fornite informazioni complete relative alla scarsa sensibilità del test (70% di falsi positivi), all’incidenza annuale della malattia (11 casi su 100.000 persone) e alla sua incurabilità (sopravvivenza a 5 anni: 3%), tale disponibilità è scesa al 13,5 (Domenighetti G, Grilli R, Maggi JR. Does provision of an evidence based information change public willingness to accept screening test? Health Expectations 2000; 3: 145-150).
Su questa scia di ricerche, si sono sviluppate negli ultimi tempi esperienze interessanti di comitati di persone indipendenti, come il progetto “Partecipasalute” rivolto a cittadini e pazienti, che si occupa di formazione, informazione, ricerca organizzando periodicamente percorsi di formazione su temi di salute e medicina, conducendo indagini sulle associazioni di pazienti, sulla collaborazione tra associazioni di pazienti e società scientifiche, su quanto la ricerca risponda (o meno) ai bisogni dei pazienti; o il “Laboratorio per il cittadino competente” dell’ AUSL di Modena, che ha l’obiettivo di riflettere con i cittadini, sulle competenze necessarie per valutare l’affidabilità dell’informazione che viene prodotta per/sulla salute, e quindi formare ad una presa di parola; o ancora “i Profili e il Piano Per la Salute ( PePS)”, istituito nel 2008 dalla Regione Piemonte che sono “lo strumento con cui la comunità locale, a livello distrettuale, definisce il proprio profilo di salute, individua gli obiettivi di salute e produce Linee Guida volte ad orientare tutte le politiche del territorio, radicalmente e rigorosamente vagliate dal punto di vista della salute” .
Queste esperienze nascono dalla consapevolezza che non sia sufficiente informare le persone sulla salute, ma è necessario che l’informazione sia leggibile, e comprensibile (oltre che, naturalmente, corretta). Un approccio informativo corretto, da parte di operatori e cittadini, potrebbe permetterci di collocarci nel complesso mondo dell’informazione, sia per essere al corrente di ciò che ci succede, ma anche per essere in grado di vedere, e scegliere, direzioni e percorsi. Si tratta di un investimento a lungo termine, come tutti gli investimenti culturali, non certamente facile, ma certamente indispensabile per ripensare ad un sistema sanitario equo, solidale e realmente orientato al benessere di ciascuno di noi.
Gabriella Morasso – Movimento Difesa del Cittadino MDC Genova